'Per quanto mi riguarda ho il sospetto che la poesia non sia affatto scrivere; il poeta non è scrittore nel senso corrente della parola; direi anzi che arriva ad odiare lo scrivere forse perché si sente in qualche modo costretto al suo gesto si tratta di scalfire, scalpellare, graffiare la lingua o di sprofondarvi più che di usarla.
Nella poesia qualcosa è al di là e al di fuori dello scrivere. Forse l’autentico grado zero, o il grado infinito della scrittura, è quello che traduce nella poesia, è quello che spaventa attraverso la poesia, anche quando essa può sembrare più connessa alla gioia, alla felicità dello scrivere. E tutto ciò non esclude la compresenza di un meticoloso atteggiamento artigianale, a tempo strapieno'. - Andrea Zanzotto
Andrea Zanzotto rappresenta uno degli
ultimi capisaldi di quella straordinaria stagione del Novecento che ha raggiunto in poesia momenti altissimi e irripetibili. Andrea Zanzotto nasce a Pieve di Soligo nel 1921 e si laurea in lettere all'università di Padova nel 1942. È unanimemente
considerato dalla critica come uno dei più importanti poeti del secondo Novecento (Premio Viareggio 1979, Premio Librex-Montale 1983, Premio "Feltrinelli" dell'Accademia dei Lincei 1987 per la poesia).
Nelle sue prime opere, Dietro il paesaggio (Mondadori Milano 1951), Elegia ed altri versi (La Meridiana Milano, 1954), Vocativo (Mondadori, Milano1957), Zanzotto
ritorna con continua passione sui fiumi, sui boschi, sui cieli, sulle stagioni dell'amata campagna veneta, esprimendone l'estasiata scoperta attraverso una parola che si fa creazione di analogie e alfabeti metafisici, di tracce dell'assoluto, di verità ricavate e rivelate da nomi e apparenze, mentre il soggetto, ricondotto totalmente al gioco linguistico che lo crea e lo distrugge, è al centro di un'angoscia cosmica di ascendenza leopardiana.
Con le IX Elogie (Mondadori, Milano, 1962), Zanzotto muta di colpo l’apparenza del suo discorso poetico, spostandosi verso l’autoironia, lo sperimentalismo formale e la percezione dell’invadenza drammatica e nevrotizzante della nuova realtà industrializzata e consumistica:
un ossessionante viaggio attraverso l’oscuro e delirante mondo contemporaneo che porta ad abbandonare le linee luminose dei paesaggi dei primi libri, per descrivere un inferno lucido, meccanico e sconvolgente.
La ricerca continua delle opere successive: con La beltà (Mondadori, Milano, 1968) e Gli sguardi i fatti e Senhal (Tip. Bernardi, Pieve di Soligo, 1969), Zanzotto, avvalendosi delle
tecniche di esplorazione psicologica e, contemporaneamente, di una serie di mirabili invenzioni verbali, compie un viaggo nelle profondità del mondo interiore, impossibilitato alla chiarezza e alla comunicabilità ma, al tempo stesso, animato da un’inesausta tensione comunicativa, arrivando alla rappresentazione delle angoscie e delle ossessioni del modo contemporaneo attraverso una forma verbale fredda, che carica di forma inquisitiva ed accusatoria ogni istante del discorso.
Il rimescolio sempre più originale e vorticoso di materiali linguistici prosegue nelle raccolte più recenti: da Pasque (Mondadori, Milano, 1973) a Filò (Edizioni del Ruzante, Venezia, 1976), in antico dialetto trevigiano, a Il galateo in bosco (Mondadori, Milano, 1978) è un continuo alternasi di latino, provenzale, formulari dei "mass media", dialetto veneto e "petèl", in una combinazione verbale che però non è mai gioco fine a se stesso, costituendo piuttosto una sorta di segnale linguistico dei momenti più complessi e intricati del nostro inconscio.
Tra le opere di Andrea Zanzotto vanno ancora ricordate, in epoca più recente, Fosfeni (Mondadori, Milano, 1983), Idioma (Mondadori, Milano, 1986).
Zanzotto
ha scritto anche prose, tra il narrativo, l’elegiaco, e il descrittivo: Sull’altopiano (Neri Pozza, Venezia, 1964); edizione ampliata col titolo Racconti e prose (Mondadori, Milano, 1990).
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